“Lucy davanti al mare” Elizabeth Strout
ed Einaudi trad. Susanna Basso
Un libro intimo e empatico, scritto con semplicità ma nello stesso con cura e equilibrio. I personaggi sono descritti con delicatezza, la scrittrice entra nelle loro pieghe, incertezze e debolezze con attenzione, rispetto e leggerezza.
Lucy ha perso il marito David, violoncellista, da poco e deve confrontarsi con l’inizio della pandemia da Covid, che però sembra non toccarla o comunque sente la pandemia lontana, in un altro mondo, laterale al suo, al susseguirsi ritmico e lineare delle sue giornate. Quel senso di distanza e di incredulità che ha riguardato tutti gli esseri umani nel periodo pandemico.
.”Quasi di continuo c’era quella sensazione di stare sott’acqua; come se le cose non fossero vere.”
L’ex marito William dopo molte insistenze la convince a lasciare New York per rifugiarsi in una vecchia casa nel Maine sul mare. E qui Lucy tra passeggiate solitarie, incontri con personaggi, gia apparsi in altri romanzi della serie di Lucy Barton, legge cartelli di insulti dai locali angosciati dalla presenza di “stranieri, possibili untori”, la donna comincia a capire cosa sta succedendo nel mondo. Nel loro isolamento irrompe la tragedia di George Floyd e le proteste Black Lives Matter o il malumore di una larga fetta della popolazione troppo a lungo considerata inesistente dal potere. La scrittrice, senza mezzi termini, parla di razzismo, guerra civile, povertà, di un malessere diffuso spesso ignorato o non raccontato
“Quello che voglio dire è che per qualche minuto ho avuto quasi una specie di visione: che ci fosse un disagio molto, molto profondo nel paese e che il mormorio di una guerra civile sembrava muoversi intorno a me come una brezza che non percepivo sulla pelle ma di cui sentivo la presenza”
La solitudine per Lucy Barton è uno stato conosciuto sin dalla sua infanzia, ha avvertito sempre uno spazio tra lei e la famiglia, con gli uomini con cui ha avuto relazione e ora con le figlie che hanno avuto insieme.
Uno spazio tra mondo interno ed esterno non colmabile, ma che può essere gestito accettandolo in modo da poter costruire dei ponti, ove sia possibile.
Descrive, e fa rivivere, le giornate infinite, senza tempo, chiusi in casa nel lockdown, che facevano pensare alla solitudine, alla paura della morte, ai rimpianti di una vita intera
È un romanzo sull’inevitabilità di essere soli, sulla perdita, sul trauma ma anche sulla importanza degli affetti, sullo spazio della relazione, sulla capacità di far prevalere la mediazione al desiderio narcisistico, all’agito non pensato, alla sola consumazione dei bisogni in assenza di desideri.
Sull’importanza di avere un oggetto buono introiettato, la madre” buona” che Lucy ha creato dentro di sè, in alternativa alle carenze della sua vera madre.
Nella distanza inevitabile del lockdown, Lucy scopre un diverso modo di sentirsi e fare la madre , e questa è la difficoltà più grande, perchè deve accettare di separarsi e di lasciare andare le figlie
“Sono rimasta un momento a guardarle mentre si allontanavano. Pensavo a quanto loro – e le loro vite – fossero diverse da come me le ero aspettate. E ho pensato: Sono le loro vite, possono farne quello che vogliono, o che devono”.
Si lascia andare nelle braccia di William, operato di tumore alla prostata, con il desiderio e la certezza che il contatto, la condivisione degli affetti, può essere di conforto anche in assenza di passione. In fondo ognuno ha un posto unico e irraggiungibile dentro di sè ma a volte due solitudini possono prendersi cura l’una dell’altra.
Un libro che emoziona, umano intensamente umano e che ci ricorda cosa siamo, inevitabilmente soli e piccola essenza di passaggio nel mondo, spesso prigionieri di un qualcosa che neanche capiamo, eppure con la spinta di andare avanti proprio perchè un giorno, semplicemente, non ci saremo piú.
“Sono uscita e mi sono seduta sui gradini del posto in cui stavo. Mi sono seduta a pensare alle ragazze, e a William e a David che se n’ era andato per sempre- e al fatto che un giorno o l’altro ce ne saremmo andati tutti. Non che fossi triste al pensiero, era solo una constatazione. E poi mi ha attraversato la mente questo. Siamo in perenne lockdown, ognuno di noi lo è. Solo che non lo sappiamo, tutto qui. Ma facciamo del nostro meglio. La maggior parte di noi cerca solo di arrivare fino in fondo”